Edizione 2011

Cos'è un calembour?

Per una strada che mena a Camogli

Opere finaliste del concorso

 

COS'E' IL CALEMBOUR
di Pier Paolo Rinaldi

 

 

«Ah ! ah ! comprenez-vous le calembour, mademoiselle?» dit Poiret. «Monsieur l'appelle un homme de marque, parce qu'il a été marqué.» («Ah! ah!, capite il gioco di parola, signorina?» fece Poiret. «Il signore lo chiama un uomo di marca, perché è stato marchiato.») Honoré de Balzac, Le Père Goriot (1835)

Il calembour non è un gioco da ragazzi, questo è certo. Il Devoto-Oli (1971) se la cava con «Freddura. Gioco di parole.» Avremmo dovuto immaginarlo, perché la guida esperta di questi territori, Giampaolo Dossena, ci avverte che «chi usa ‘calembour’ in italiano intende ‘gioco di parole, bisticcio’. Dunque, in italiano, ‘calembour’ è una parola generica che etichetta fenomeni disparati, indeterminati.» Se ci accontentassimo di un gioco di parole omofone come il bisticcio potremmo spaziare dall’alto, partendo dai leporeambi di Ludovico Leporeo (1582-1655), citato da Giovanni Pozzi

Bolso ho il polso, agro e magro e sto in barella / Strutto e brutto, irto spirto che ormai strilla / Morto a torto, unto e smunto per Plautilla / che mi dié questa in testa pelarella

(la pelarella, o pelatina, era una delle conseguenze della sifilide) scendendo fino al capocomico Luigi del Buono (1751-1832), che di Bisticcio ha fatto un personaggio teatrale:

Io parto, e porto il pianto pinto in petto; / e resto mesto, pesto dal martoro; / Misfatto ho fatto, ma non è difetto / Se mai mangiai, pagai col mio lavoro.

citato da chi scrive. In francese, invece, si tratta di un gioco di parole ben preciso, fa notare Dossena, «quello di due parole che hanno significato diverso ma si pronunciano nello stesso modo e (a) si scrivono nello stesso modo oppure (b) si scrivono in modo diverso.» Calembours utili, prosegue, sono quelli delle insegne di locali pubblici, cui basta variare spazi e accenti per cambiare il significato:

au lit on dort (au Lion d’Or) / a letto si dorme (al leone d’Oro)
au p’tit chien (opticien) / al cagnolino (ottico)

Esempi più alti, sempre in ambito francese, spuntano nell’area dell’avanguardia, che si prende maggiori libertà nei confronti del linguaggio. Il poeta Max Jacob (1876-1944), che per un periodo divise una stanza a Parigi con Pablo Picasso, utilizza il calembour con disinvoltura in tutta la sua opera: un breve esempio dalle Œuvres burlesques et mystiques de Frère Matorel (1912) è «La bourse houle! avis / La bourse ou la vie», che si può tradurre, perdendo i suoni dell’originale, come «La borsa fluttua! Avviso / La borsa o la vita». La parola è la materia del poeta e «La poesia è un vasto calembour», scriverà Jean Cocteau: «Il poeta associa, dissocia, rigira le sillabe della parola, ma pochi lo sanno.» Picasso presentò Jacob al poeta Guillaume Apollinaire (1880-1918), una delle prime figure di spicco del Surrealismo, in cui il gioco con l’omofonia permea tutta l’opera. E «Tutta la poesia moderna nasce da Max Jacob e da Apollinaire», scriverà Raymond Queneau, uno scrittore che di certo si è preso le sue libertà con le parole e che è passato dalle braccia del Surrealismo alla fondazione dell’Oulipo, il «laboratorio della letteratura potenziale», che introduce il gioco nella sua concezione più ampia nella produzione stessa dell’opera letteraria.

Altri, più bassi ancora, sono i calembour da scolaretti, quelli che giocavano sulla pronuncia francese di attori americani inesistenti, come John Duff (jaune d’oeuf – giallo d’uovo), Harry Cover (haricot vert – fagiolini verdi, o fagiolini), quest’ultimo così diffuso da essere citato anche da Henry Miller come lo pseudonimo di uno dei finanziatori del suo soggiorno parigino, e il qui intraducibile James Labitte (l’osceno è a un passo). Giochi d’infanzia: la «Ciolanka Sbilenka», famosa ballerina delle nostre scuole elementari, imitava il suono della lingua russa ed era in qualche modo una lontana parente di Harry, nonostante il nome inventato. Dossena prova ad alzare il tiro indicando il calembour come «matrice» dei versi olorimi, come quello di Giancarlo Cabella:

Mente sicura è di odio semente: / men tesi cura e.... Dio, Dio se mente!

Ma resta il problema dello scambio, che manca. Sempre in calembour da scolaretti, ma rivolta alle loro mamme, è stata la campagna 2004 dell’Esselunga che aveva come testimonial (anche visivi) Cappelletto Rosso, i Sette Pani, (mozzarella di) Bufala Bill e la Banana Butterly, o certi frammenti di quel vulcano di parole che è Alessandro Bergonzoni, come «Pioveva sui nostri corpi spogliati, un vero nudifragio». Ancora sostituzioni, e lo scambio?

Il calembour non è una forma poetica come il limerick, che sai di quanti versi è fatto, che rima così e cosà e che alla fine dell’ultimo verso c’è il nome di una città. Il calembour è una nube in cui ti incammini e, mentre ti avvicini al suo cuore, perdi di vista il punto in cui ti trovi. Il calembour è un atomo, ma non come quello di Bohr, col suo centro circondato dalle ordinate ellissi degli elettroni, ma quello nuovo, in cui gli elettroni sono – ancora – una nuvola, solo la rappresentazione della probabilità di incontrarne uno.

Intanto eccone uno d’Oltralpe, e l’omofonia c’è, del Canard Enchaîné, che non ha (quasi) bisogno di traduzione: «Je suis en congé de ma Lady»: ma Lady, la mia signora = maladie, malattia, e da entrambe si può prendere un congedo, così come Georges Clemenceau disse di Ferdinand Sarrien (1840-1915) alla vigilia di un’elezione politica: «Sarrien? Tout un programme!» (il ne) sait rien = non sa nulla. Il suono è lo stesso, il significato no. E qui possiamo tornare scolaretti, quando concludevamo una lunga, triste, ma soprattutto lunga storia con «Tanto va la gatta al largo che ci lascia lo zio Pino.» Si tentava il calembour senza saperlo, come il Borghese Gentiluomo, e con le braghe corte. E la maestra, che non aveva ancora letto Ersilia Zamponi, disapprovava: il registro era doppio (anzi, triplo, contanto quello su cui finiva la nota del furbetto di turno).

Non c’è dubbio che la violazione – perché di questo si tratta – delle convenzioni linguistiche funziona solo quando di queste si ha padronanza, perché si gioca (almeno) su due fronti, e perché il gioco nasconde sotto l’apparenza di parole innocenti altre parole che, invece, possono anche essere tabù. Specie quando nella nuvola del calembour la frase s’allunga, il motto raddoppia e c’è più spazio di manovra, come nella contrepèterie, quella che Stefano Bartezzaghi, nelle sue Lezioni chiama «scambio non enigmistico».

Il «Partir c'est mourir un peu» che Jacques Prévert cambia in «Martyr c'est pourrir un peu» (martire è marcire un po') scambia la m con la p, ma foneticamente funziona e il gioco si fa più divertente. In italiano è più difficile ma lo scambio regge, come prova nel 2006 un lettore della sua rubrica su Repubblica online: «Pensavo che la Lega si può definire così: Il mito della razza, il rito della mazza» (e anche qui l’osceno è a un passo, se pensiamo a cosa può diventare un mazzo di carte, un po’ come succedeva a Ciano di Cortellazzo durante il fascismo, lontano dalle orecchie dell’OVRA). Cavalcando il tema «mazzo di carte» e l’atteso scambio boccaccesco di consonanti, su Italia Uno il maestro Rabartha (Andrea Ceccon) frustra spesso il pubblico di un programma comico con versi come:

Dice il mulo al bue del Nilo: / ‘Il termometro, dove lo infilo?’ / Dice il bue del Nilo al mulo: / ‘In bocca no, perché l’altra volta l’hai rotto.’

Contrepéter, lo scambio – in francese antico – di un suono con un altro è un’arte sottile e un po’ pericolosa sin dal Cinquecento, quando cui Rabelais invitò i suoi lettori a non confondere le donne folles de la messe con quelle molles de la fesse. Un bisticcio sempre sul limite per il quale si dovrebbe essere in tre: chi lo dice e chi lo coglie e chi non capisce di cosa si stia parlando (in modo da divertirsi anche alle sue spalle). Un calembour al quadrato. E al cubo, se entra in gioco anche l’elemento visivo.

Un tempo si credeva che l’Ircocervo fosse un vero animale, per metà capro (hircus) e per metà cervo (cervus) – e qui, rispetto alla nuvola in cui si trova il calembour vero e proprio, ci allontaniamo verso la periferia, legati al centro dalla forza di attrazione del gioco col suono delle parole. È proprio l’associazione fonetica, una delle regole del gioco che Umberto Eco lancia negli anni Ottanta, quello dell’ircocervo: la fusione di due nomi famosi in un terzo, quello di un autore immaginario, che ricordi i primi due ma che sia anche accompagnato dal titolo di una (possibile) sua opera. Un esempio è Fred Asterix, da Fred Astaire più Asterix (quello che conta è il suono), probabile autore del De ballo gallico. È il ritorno, con un nuovo nome e un’aggiunta, della portmanteau word, la parola-valigia in cui due parole, scontrandosi, vanno a formarne una terza che ha un suono che le combina. E la lingua inglese, dalla grande flessibilità e dalla storica propensione alla creazione di parole nuove, ne è ricca ancora oggi: dal familiare smog – che è smoke (fumo) più fog (nebbia) – sino ad arrivare al più nuovo e stridente staycation: il «fare vacanza restando a casa» che caratterizza la crisi è infatti composto da (to) stay, stare, restare, e vacation, vacanza. I lettori di Lewis Carroll potranno riprendere Attraverso lo specchio dallo scaffale e tornare a leggersi il «Jabberwocky», una poesia fittissima di portmanteau words e «difficile da capire», come ammette la stessa Alice.

Esempi di interpretazioni visive di queste fusioni sono, come scrive Umberto Eco nella prefazione a ’900, il volume che nel 1998 raccoglie una serie di immagini di Massimo Bucchi, i centauri e le sfingi:

Mancava l'ultimo passo (almeno per quanto ne so, a meno che qualcuno sia capace di individuare procedimenti abbastanza simili in certi giochi dell'emblematica barocca): inventare l'ircocervo verbale e interpretarlo visivamente (o viceversa). Questo passo in avanti, fondamentale per l'evoluzione della specie, lo ha fatto Massimo Bucchi.

Tocca a chi segue le orme dei poeti, ora, addentrarsi nella nuvola che circonda il nucleo del calembour, per lasciarsi attirare dalla forza del suono delle parole e tornare a spingersi verso il confine e infine tradurle in immagini. Provare a diventare «allevatori di ircocervi» ci permetterà di guardare il mondo con uno sguardo nuovo.

 

 

Per saperne di più
Stefano Bartezzaghi, Lezioni di enigmistica, Einaudi, Torino 2001
Massimo Bucchi, ’900, I libri di Edizioni la Repubblica, Roma 1998
Brassaï, Henry Miller. Happy Rock, The University of Chicago Press, Chicago 1978
Andrea Ceccon, Il Vapfan-ghala, De Agostini, Milano 2008
Giampaolo Dossena, Dizionario dei giochi con le parole, Vallardi Milano 1994
Giovanni Pozzi, Poesia per gioco, Il Mulino, Bologna 1984
Pier Paolo Rinaldi, Il piccolo libro del nonsense, Vallardi, Milano 1997